Premessa alla edizione italiana.
Tutto quello che
riguarda l’immigrazione e gli immigrati in Italia è stato già visto. Anche
senza voler contare l’immigrazione interna, che pure nei secoli è stata ingente
(da quelle migliaia di veneti, marchigiani o abruzzesi che bonificarono le
paludi Pontine agli eserciti di braccianti meridionali diventati operai delle
fabbriche del nord), tra il 1870 e il 1970 gli italiani sono andati ovunque nel
mondo in cerca di lavoro e di un futuro migliore per i propri figli. Eppure,
anche se sull'emigrazione italiana si è scritto, raccontato e detto tanto, oggi
sembra quasi che l’argomento sia nuovo. Anche se chiunque abbia fatto le scuole
elementari in Italia sa di cosa parla “Dagli Appennini alle Ande”, se al solo
nominare Marcinelle a ciascuno scappa un brivido o se quella di “Rocco e
i suoi fratelli” è una storia in cui, ancora oggi, molti italiani del sud
potrebbero avvertire una eco di vicende di famiglia.
Purtroppo,
quello dell’immigrazione oggi è un tema “caldo”, argomento buono per i
dibattiti televisivi, le tavole rotonde, i convegni. Un tema che fa discutere e
divide, che spesso contrappone i pro e i contro come ultras di squadre diverse
finché in campo non scende l’esperto, il “cifra tuttologo” di turno, che inizia
a sciorinare dati e percentuali: quanti immigrati arrivano ogni anno in Italia,
da quanti paesi provengono, quanto costa l’immigrazione in termini di PIL.
Cifre che - vere o false che siano a seconda del contesto più o meno ideologico
in cui vengono esposte - fanno dimenticare quasi sempre che quello di cui si
parla non sono numeri, ma esseri umani. Esseri umani che - come gli italiani un
tempo - partono dai loro paesi in cerca di un lavoro e di una vita migliore,
per sé stessi e le proprie famiglie.
Il primo mito
che riguarda l’immigrazione che arriva oggi in Italia è quello dell’“esercito
di affamati” che sbarcherebbe sulle coste con i barconi: la maggioranza delle
persone immigrate in Italia negli ultimi trent’anni non è arrivata in quel
modo. Sono arrivati in aereo, con regolari voli di linea, e via terra
attraversando semplicemente le frontiere in macchina o in pullman. Non sono
arrivati sfidando il mare e la guardia costiera soprattutto perché non ne
avrebbero avuto bisogno. Non esiste legge che impedisca di venire in Italia per
turismo e, infatti, la maggioranza degli stranieri arriva così. Solo che allo
scadere del visto turistico resta in Italia, sia che abbia già ottenuto i
documenti per farlo in modo legale, sia che questo comporti di diventare
“irregolare”. In tutti i casi, la percentuale di chi arriva con i barconi
(immagine reale ma rara, che, ripetuta all'infinito e amplificata ad arte, contribuisce solo a creare nell'immaginario collettivo il timore del’“invasione
straniera”) in realtà è bassissima. Un’immagine buona solo per alimentare le
politiche de "l’Italia agli italiani", con i tutti i loro contorni di
“padanie” e fazzoletti verdi o, peggio, croci celtiche e mani tese.
La verità dei
fatti è un’altra, ma va ricercata molto lontano dalle coste di Lampedusa. Il
primo passo per trovarla può essere entrare in un negozio dell’Ikea. Prezzi
bassi e vasta scelta, ecco il segreto del successo della multinazionale svedese
più conosciuta al mondo.
Ma su cosa
poggia la fortuna del “signor Ikea”? Su un’ottima visione commerciale e su un
altrettanto spiccato senso degli affari, questo certamente, ma anche su
qual cos’altro. Per scoprire cosa basta leggere le etichette sui prodotti.
Bicchieri: made in Bulgaria. Scodelle: made in Russia. Posate: made in China.
Lenzuola: made in India. Cestini in vimini: made in Sri Lanka. Il “signor Ikea”
ha capito, prima di molti altri, che la globalizzazione dei mercati poteva
essere una benedizione. Così l’ha sfruttata, de-localizzando quasi tutte le
produzioni in paesi in cui i diritti dei lavoratori non esistono, i salari sono
bassi e i sindacati non hanno voce. Come c’entra questo con l’immigrazione in
Italia? C’entra, perché è l’esempio concreto del “paradosso Ikea”: oggi il
mercato delle merci è stato globalizzato alla perfezione (chiaramente a seconda
dei punti di vista), ma c’è ancora una merce che non può circolare liberamente.
La forza-lavoro.
Come una
qualsiasi merce, la forza-lavoro rientra in un mercato dove ci sono compratori
e venditori, e, come merce, è soggetta ai ribassi e ai rialzi dell’offerta e
della domanda. Nell'Italia del “dopo boom economico”, gli imprenditori - quelli
grandi, con tanti lavoratori, i “signori Ikea” italiani per intenderci -
cominciano a creare le condizioni per abbassare i costi di produzione. Uno dei
primi sistemi che trovano è appunto andare all'estero, nei paesi dove i salari
sono inferiori rispetto a quelli italiani, producendo là e continuando a
vendere qui. Ma presto questo non basta - anche perché non tutto può essere
de-localizzato - e occorre trovare altre strade. Uno dei primi sistemi ad
essere scoperto grazie al provvidenziale suggerimento dei giuslavoristi, è
stato sicuramente il precariato. Generazioni intere di lavoratori senza
diritti, aggrappati a contratti in continua scadenza, costretti ad accettare
qualsiasi condizione di lavoro pur di sfuggire alla disoccupazione. Un’idea
brillante. Ma neppure questo bastava. Così gli imprenditori chiedono aiuto allo
Stato, il quale - per contribuire ad abbassare i costi - fa in modo di
richiamare in Italia un gran numero di lavoratori stranieri. Più o meno formati
o scolarizzati non importa, tanto devono essere impiegati in lavori di basso
profilo, l’importante è che siano “irregolari”. Perché il trucco è proprio
questo: che la forza-lavoro non arrivi dalla porta, ma dalla finestra. Cioè
senza diritti, imballata e pronta per essere sfruttata. I lavoratori devono
poter essere assunti irregolarmente, devono essere licenziabili senza creare
problemi, li si deve sempre poter ricattare. Un’altra gran bella trovata, che
oltretutto contribuisce a dissuadere anche i precari italiani dal chiedere
maggiori diritti, del tipo: “Se rifiuti di scaricare bancali in magazzino per
otto ore al giorno chiamo due marocchini, li pago la metà, e loro mi dicono
anche grazie!”.
Gli imprenditori
che importano materie prime o strumenti di produzione dall'estero pagano i
costi del trasporto, mentre per avere manodopera straniera sottopagata in
Italia non ci sono molti oneri aggiuntivi. L’importazione di operai stranieri è
il miglior affare che un Stato può fare in tempi di crisi: ricevere una persona
già in età lavorativa senza aver speso un euro per lui/lei. Una simpatica forma
di rapina colonialista moderna, che sottrae braccia e cervelli ai paesi
d’origine, ghettizzando i lavoratori immigrati in nicchie di lavoro non
qualificato, rifiutando di riconoscere titoli di studio esteri e
specializzazioni conseguite altrove. Ma d’altra parte la domanda del mercato
sembra attestarsi solo sulle fasce basse: non sono richiesti ingegneri
meccanici, ma turnisti alla catena di montaggio. Non agronomi, ma raccoglitori
di pomodori. Eppure, così come si sottoscrivono accordi di commercio bilaterale
o trattati di libero commercio, si dovrebbero poter firmate anche “trattati di
libero lavoro”, almeno con tutti quei paesi che - nel corso degli ultimi
cent’anni - hanno visto nell'emigrazione italiana un elemento socialmente
significativo. Ma il concetto di reciprocità sembra non essere molto familiare
ai governi.
Così arriviamo
ad un mercato in cui la maggior parte degli italiani non accetta di lavorare in
un bar per 5 euro l’ora. Lavoratori il cui tenore di vita - finora tutelato da
associazioni e sindacati - impone di rifiutare di andare a raccogliere la
frutta per 20 euro la giornata. Uomini e donne che, avendo studiato e investito
sulle proprie specializzazioni, non accettano di prendersi cura di un anziano
per 600 euro al mese o di fare le pulizie nelle case a 8 euro l’ora. Il minimo
offerto dal mercato è diventato troppo basso. Perciò non è affatto vero, come
qualcuno vuole far credere, che gli italiani non vogliono più fare certi
lavori. Semplicemente si rifiutano di farli per paghe così basse. Quando i
lavori manuali - magari anche umili - vengono ben retribuiti, gli italiani
lottano per accaparrarseli esattamente come gli altri: non c’è concorso per
posti da “operatore ecologico” indetto da una municipalizzata che non veda
migliaia di domande di italiani, ben oltre l’offerta. Il falso ideologico dei
lavoratori stranieri che coprono i vuoti lasciati dagli italiani vuole solo
nascondere il problema dello sfruttamento dei lavoratori, assopendo le
coscienze e cancellando i diritti di tutti.
Chi sostiene che
l’immigrazione sia un “fenomeno”, dà un’immagine assolutamente falsata della
questione. L’immigrazione non ha nulla di occasionale. Non è un esodo
improvvisato di persone in fuga da qualcosa o qualcuno. Non nasce dall'oggi al
domani. L’immigrazione è, piuttosto, la prima e più visibile conseguenza
dell’attuale sistema del lavoro globalizzato: un sistema in cui le condotte umane
vengono indirizzate esclusivamente attraverso le leve economiche della domanda
e dell’offerta di lavoro. Il porre l’accento sull'emergenza, sugli sbarchi, sul
tema “dell’invasione straniera” (così come sulle quote, sui permessi di
soggiorno, sulla repressione), mette in ombra il nodo centrale attorno al quale
tutto ruota: il mercato ha bisogno del lavoro immigrato, e ne ha bisogno
proprio nella sua forma attuale. Come in passato si nascondeva l’origine del
profitto - che traeva origine dal plusvalore generato degli operai - oggi si
nasconde il plusvalore che generano i lavoratori immigrati.
L’Italia è un
paese che, da molto tempo ormai, ha una crescita demografica negativa. Questo
significa che, man a mano che la popolazione italiana ha iniziato a invecchiare,
sono rimasti dei “posti vuoti” nella società. La dinamica è più facile da
capire in un piccolo centro che non nelle grandi città: se in un paesino muore
il macellaio o il farmacista, il giorno successivo la gente si preoccuperà di
sapere chi venderà la carne o i medicinali, perché quel “posto” è rimasto
vuoto. Nelle città l’unica cosa a cui possiamo guardare sono i dati generali
relativi alla popolazione, che, stando alle statistiche, ogni anno diminuisce.
Ma questo oltre a “lasciare vuoti dei posti” crea anche una contrazione del
mercato. Man mano che la popolazione invecchia diminuisce il proprio valore
d’uso, nel senso che non contribuisce più come una volta a far girare
l’economia: gli anziani non comprano (o lo fanno di rado) case, auto, vestiti,
elettrodomestici e tutto quello che la società dei consumi produce
incessantemente. Magari incrementano le proprie richieste di servizi (donne
delle pulizie, badanti, medici e infermieri), ma iniziano a porsi ai margini
del mercato dei beni. Inoltre, le persone anziane non lavorano più, ma
percepiscono una pensione, diventando quindi per la collettività una voce in
passivo. Perciò, ricapitolando: la popolazione invecchia, la natalità è
negativa, gli anziani diventano un costo che grava sulle spalle della
popolazione economicamente attiva, che - soprattutto considerando il nostro
alto tasso di disoccupazione - si assottiglia sempre di più. Quindi? Quindi
arrivano gli immigrati.
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