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mercoledì 9 aprile 2014

In Italiano

Introduzione

La parola “migrazione” deriva dal latino mĭgrātĭo (emigrazione, trasferimento, passaggio) e, in senso figurato, del greco metafora, dalle due radici “metà”, più là, e “phorein”, traslocare, portare, spostare più là). Quest’antica definizione della migrazione oggi è troppo stretta, soprattutto dopo le scoperte archeologiche sull'origine dell’uomo che stabiliscono come le tribù dell’Homo Sapiens lasciarono la culla afro-orientale (Etiopia) e si “spostarono” per tutta la Terra, inaugurando una fase in cui l’umanità entrò in possesso di tutto il pianeta e celebrò l'inizio della migrazione come condotta normale degli esseri umani. È a questo migrare che dobbiamo molto di quello che siamo oggi: le ricerche ci dicono infatti che lo sviluppo del piede, del ginocchio e del bacino nell'uomo moderno sono avvenuti anche grazie al camminare dei nostri progenitori.

Nelle comunità primitive il processo migratorio è generalizzato: non c’è ancora la divisione sociale del lavoro e quindi tutti migrano, perché solo migrando potevano coprire i loro bisogni di beni.

Quando, in epoca storica, arriva lo schiavismo, la migrazione non è più un processo voluto: la proprietà privata sui mezzi di produzione fa nascere lo sfruttamento degli uni sugli altri, e l’essere umano diventa merce di scambio da cui trarre profitto. La migrazione diventa coatta, spesso mortale: chi perdeva una battaglia o una guerra era portato nelle terre di residenza dei vincitori, strappato alla propria famiglia e con questa quasi mai ricongiunto.

Nel feudalesimo e, più tardi, nello “schiavo-feudalesimo” imposto dal Vecchio Continente nelle colonie africane, asiatiche o latinoamericane, la migrazione ha le stesse caratteristiche, tranne che gli schiavi hanno acquisito dei diritti in relazione alla capacità di soddisfare le esigenze dei propri “padroni”.

Nel capitalismo la forza-lavoro è una merce, e solo chi la vende ha “la libertà di scegliere lo sfruttatore”. La migrazione di centinaia di milioni di braccia altro non è che un mercato mondiale di manodopera. Così come in passato si pretendeva di nascondere l’origine del profitto - quindi il plusvalore generato degli operai - oggi si vuole nascondere il profitto che generano i lavoratori immigrati in ogni paese dove arrivano. Si vuole nascondere che gli operai stranieri sono stati portati apposta per far concorrenza agli operai italiani e far sparire ogni traccia dei diritti lavorativi di tutti.

La presenza in un paese di milioni di persone immigrate non può essere spiegata attraverso una sola risposta. La maggior parte delle persone immigrate in Italia sono arrivate in aereo e via terra, non per mare come i mass media pretendono di far credere. I gommoni e i barconi pieni di "affamati" sono immagini che alimentano la politica discriminante e impauriscono chi crede nella trama della Lega Nord: "l’Italia agli italiani" o "Padania libera". I concetti di “nostra terra”, “nostra nazione”, “nostra Unione Europea” appartengono esclusivamente a chi veramente è proprietario di questi posti, perché i confini nascono per legalizzare la proprietà.

"Le nostre risorse naturali", "i nostri schiavi", "i nostri operai", "i nostri animali", "i nostri mari", e poi, subito dopo, "la nostra cultura", "la nostra religione", "la nostra musica". Ponendosi dentro dei confini sembra che tutto sia di tutti, naturalmente finché qualcuno fa vedere i titoli di proprietà. I confini si aprono e si chiudono solo quando i padroni del posto lo vogliono. I confini delle nazioni sono parte della sicurezza e sono impenetrabili. Il controllo per l’aria, la terra e il mare garantisce il flusso - desiderato o no - di persone o cose: siamo nel terzo millennio, il mercato delle merci è stato globalizzato tanto che le cose possono passare da un confine ad un altro. Solo una merce non può circolare liberamente: la forza-lavoro.

I mercati internazionali funzionano attraverso trattati di libero commercio che sembrano accordi di reciproco vantaggio. I paesi sviluppati e industrializzati si accordano con paesi arretrati con patti che regolano il flusso delle merci. Lo fanno a seconda degli interessi dei grandi produttori a detrimento di quelli di migliaia di piccoli e medi produttori dei paesi dipendenti. I trattati che regolano il flusso della merce forza-lavoro, quindi anche i suoi diritti, invece, ancora non sono stabiliti fra i paesi. Il flusso delle persone si regola con norme bilaterali di vecchia data, ma se in futuro si firmeranno accordi saranno ugualmente sottomessi agli interessi dei grandi capitalisti, e solo dei governi indipendenti dal sistema coloniale attuale potrebbero costringere a firmare trattati in vantaggio della merce forza-lavoro, magari attraverso accordi che riconoscano i diritti umani e lavorativi delle persone emigrate in queste “grandi” nazioni. L’immigrazione è un processo generatore di grandi risorse economiche e per questo ci sarà sempre qualcuno o tanti pronti ad approfittare di questo massiccio movimento di persone.

La migrazione è un tema sempre caldo. Le persone ne parlano, gli “esperti” ne discutono nei dibattiti, alle tavole rotonde e durante i convegni. I “cifra-tuttologi”, infine, ne espongono diligentemente i numeri, e fra tutti sono i peggiori: attraverso dati e cifre, questi ultimi hanno infatti la capacità di trasformare la fame nel mondo in una semplice statistica, facendo dimenticare quasi sempre che si parla di esseri umani. I tanti uomini, donne e bambini che da più di vent’anni sentiamo arrivare da lontano finiscono in poco tempo per diventare delle unità di forza-lavoro nel sistema produttivo di questo paese. Quindi, una volta tuffati nel mercato del lavoro, sembra che spariscano, a conferma che la finalità dell’immigrazione è proprio il lavoro.

Chi sostiene che l’immigrazione è un fenomeno ne dà un’immagine assolutamente falsata. Quasi che le persone immigrate stessero fuggendo come in un esodo o come buoi allo sbando. Chi sostiene il concetto del “fenomeno” non riesce a capire che chi vuole “scappare” dai paesi del “terzo mondo” per fame, guerra o per sfuggire a catastrofi naturali, deve avere come minimo i quattrini per pagarsi il biglietto del viaggio. Per attraversare l'Oceano Pacifico, Atlantico o Indiano non si può essere indigenti, occorre avere un minimo di risorse economiche per acquistare un biglietto di viaggio di qualsiasi mezzo di trasporto dall'Asia, Africa o America Latina verso l’Europa, Stati Uniti, Canada o altri paesi. Cioè avere da 5mila a 10mila dollari a testa per arrivare a destinazione.

La maggior parte delle persone immigrate provengono dal cosiddetto ceto medio dei loro paesi. Per questo fra le persone immigrate troviamo laureati, professionisti, piccoli e medi imprenditori, persone che hanno un gran bagaglio culturale, quasi tutti bilingue. Queste persone escono dal loro paese con progetti di vita, pianificati dentro le mura familiari con la speranza di diventare il più presto possibile possessori di un salario ricco nei paesi del “primo mondo”. Milioni di progetti di vita non possono esseri considerati come un fenomeno. Al contrario della visione proposta dalla maggior parte delle ONG, l’immigrazione è una condotta umana che può essere analizzata solo dentro un processo di mercato mondiale di forza-lavoro, cioè dentro l’offerta e la domanda internazionale di posti di lavoro. Una condotta umana che, a seconda del modo di produzione in cui si attua, stabilisce dei processi. Processi che hanno delle fasi chiare dentro un tempo e uno spazio.



Premessa alla edizione italiana.

Premessa alla edizione italiana.

Tutto quello che riguarda l’immigrazione e gli immigrati in Italia è stato già visto. Anche senza voler contare l’immigrazione interna, che pure nei secoli è stata ingente (da quelle migliaia di veneti, marchigiani o abruzzesi che bonificarono le paludi Pontine agli eserciti di braccianti meridionali diventati operai delle fabbriche del nord), tra il 1870 e il 1970 gli italiani sono andati ovunque nel mondo in cerca di lavoro e di un futuro migliore per i propri figli. Eppure, anche se sull'emigrazione italiana si è scritto, raccontato e detto tanto, oggi sembra quasi che l’argomento sia nuovo. Anche se chiunque abbia fatto le scuole elementari in Italia sa di cosa parla “Dagli Appennini alle Ande”, se al solo nominare Marcinelle a ciascuno scappa un brivido o se quella di “Rocco e i suoi fratelli” è una storia in cui, ancora oggi, molti italiani del sud potrebbero avvertire una eco di vicende di famiglia.

Purtroppo, quello dell’immigrazione oggi è un tema “caldo”, argomento buono per i dibattiti televisivi, le tavole rotonde, i convegni. Un tema che fa discutere e divide, che spesso contrappone i pro e i contro come ultras di squadre diverse finché in campo non scende l’esperto, il “cifra tuttologo” di turno, che inizia a sciorinare dati e percentuali: quanti immigrati arrivano ogni anno in Italia, da quanti paesi provengono, quanto costa l’immigrazione in termini di PIL. Cifre che - vere o false che siano a seconda del contesto più o meno ideologico in cui vengono esposte - fanno dimenticare quasi sempre che quello di cui si parla non sono numeri, ma esseri umani. Esseri umani che - come gli italiani un tempo - partono dai loro paesi in cerca di un lavoro e di una vita migliore, per sé stessi e le proprie famiglie.

Il primo mito che riguarda l’immigrazione che arriva oggi in Italia è quello dell’“esercito di affamati” che sbarcherebbe sulle coste con i barconi: la maggioranza delle persone immigrate in Italia negli ultimi trent’anni non è arrivata in quel modo. Sono arrivati in aereo, con regolari voli di linea, e via terra attraversando semplicemente le frontiere in macchina o in pullman. Non sono arrivati sfidando il mare e la guardia costiera soprattutto perché non ne avrebbero avuto bisogno. Non esiste legge che impedisca di venire in Italia per turismo e, infatti, la maggioranza degli stranieri arriva così. Solo che allo scadere del visto turistico resta in Italia, sia che abbia già ottenuto i documenti per farlo in modo legale, sia che questo comporti di diventare “irregolare”. In tutti i casi, la percentuale di chi arriva con i barconi (immagine reale ma rara, che, ripetuta all'infinito e amplificata ad arte, contribuisce solo a creare nell'immaginario collettivo il timore del’“invasione straniera”) in realtà è bassissima. Un’immagine buona solo per alimentare le politiche de "l’Italia agli italiani", con i tutti i loro contorni di “padanie” e fazzoletti verdi o, peggio, croci celtiche e mani tese.
La verità dei fatti è un’altra, ma va ricercata molto lontano dalle coste di Lampedusa. Il primo passo per trovarla può essere entrare in un negozio dell’Ikea. Prezzi bassi e vasta scelta, ecco il segreto del successo della multinazionale svedese più conosciuta al mondo.
Ma su cosa poggia la fortuna del “signor Ikea”? Su un’ottima visione commerciale e su un altrettanto spiccato senso degli affari, questo certamente, ma anche su qual cos’altro. Per scoprire cosa basta leggere le etichette sui prodotti. Bicchieri: made in Bulgaria. Scodelle: made in Russia. Posate: made in China. Lenzuola: made in India. Cestini in vimini: made in Sri Lanka. Il “signor Ikea” ha capito, prima di molti altri, che la globalizzazione dei mercati poteva essere una benedizione. Così l’ha sfruttata, de-localizzando quasi tutte le produzioni in paesi in cui i diritti dei lavoratori non esistono, i salari sono bassi e i sindacati non hanno voce. Come c’entra questo con l’immigrazione in Italia? C’entra, perché è l’esempio concreto del “paradosso Ikea”: oggi il mercato delle merci è stato globalizzato alla perfezione (chiaramente a seconda dei punti di vista), ma c’è ancora una merce che non può circolare liberamente. La forza-lavoro.

Come una qualsiasi merce, la forza-lavoro rientra in un mercato dove ci sono compratori e venditori, e, come merce, è soggetta ai ribassi e ai rialzi dell’offerta e della domanda. Nell'Italia del “dopo boom economico”, gli imprenditori - quelli grandi, con tanti lavoratori, i “signori Ikea” italiani per intenderci - cominciano a creare le condizioni per abbassare i costi di produzione. Uno dei primi sistemi che trovano è appunto andare all'estero, nei paesi dove i salari sono inferiori rispetto a quelli italiani, producendo là e continuando a vendere qui. Ma presto questo non basta - anche perché non tutto può essere de-localizzato - e occorre trovare altre strade. Uno dei primi sistemi ad essere scoperto grazie al provvidenziale suggerimento dei giuslavoristi, è stato sicuramente il precariato. Generazioni intere di lavoratori senza diritti, aggrappati a contratti in continua scadenza, costretti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro pur di sfuggire alla disoccupazione. Un’idea brillante. Ma neppure questo bastava. Così gli imprenditori chiedono aiuto allo Stato, il quale - per contribuire ad abbassare i costi - fa in modo di richiamare in Italia un gran numero di lavoratori stranieri. Più o meno formati o scolarizzati non importa, tanto devono essere impiegati in lavori di basso profilo, l’importante è che siano “irregolari”. Perché il trucco è proprio questo: che la forza-lavoro non arrivi dalla porta, ma dalla finestra. Cioè senza diritti, imballata e pronta per essere sfruttata. I lavoratori devono poter essere assunti irregolarmente, devono essere licenziabili senza creare problemi, li si deve sempre poter ricattare. Un’altra gran bella trovata, che oltretutto contribuisce a dissuadere anche i precari italiani dal chiedere maggiori diritti, del tipo: “Se rifiuti di scaricare bancali in magazzino per otto ore al giorno chiamo due marocchini, li pago la metà, e loro mi dicono anche grazie!”.

Gli imprenditori che importano materie prime o strumenti di produzione dall'estero pagano i costi del trasporto, mentre per avere manodopera straniera sottopagata in Italia non ci sono molti oneri aggiuntivi. L’importazione di operai stranieri è il miglior affare che un Stato può fare in tempi di crisi: ricevere una persona già in età lavorativa senza aver speso un euro per lui/lei. Una simpatica forma di rapina colonialista moderna, che sottrae braccia e cervelli ai paesi d’origine, ghettizzando i lavoratori immigrati in nicchie di lavoro non qualificato, rifiutando di riconoscere titoli di studio esteri e specializzazioni conseguite altrove. Ma d’altra parte la domanda del mercato sembra attestarsi solo sulle fasce basse: non sono richiesti ingegneri meccanici, ma turnisti alla catena di montaggio. Non agronomi, ma raccoglitori di pomodori. Eppure, così come si sottoscrivono accordi di commercio bilaterale o trattati di libero commercio, si dovrebbero poter firmate anche “trattati di libero lavoro”, almeno con tutti quei paesi che - nel corso degli ultimi cent’anni - hanno visto nell'emigrazione italiana un elemento socialmente significativo. Ma il concetto di reciprocità sembra non essere molto familiare ai governi.
Così arriviamo ad un mercato in cui la maggior parte degli italiani non accetta di lavorare in un bar per 5 euro l’ora. Lavoratori il cui tenore di vita - finora tutelato da associazioni e sindacati - impone di rifiutare di andare a raccogliere la frutta per 20 euro la giornata. Uomini e donne che, avendo studiato e investito sulle proprie specializzazioni, non accettano di prendersi cura di un anziano per 600 euro al mese o di fare le pulizie nelle case a 8 euro l’ora. Il minimo offerto dal mercato è diventato troppo basso. Perciò non è affatto vero, come qualcuno vuole far credere, che gli italiani non vogliono più fare certi lavori. Semplicemente si rifiutano di farli per paghe così basse. Quando i lavori manuali - magari anche umili - vengono ben retribuiti, gli italiani lottano per accaparrarseli esattamente come gli altri: non c’è concorso per posti da “operatore ecologico” indetto da una municipalizzata che non veda migliaia di domande di italiani, ben oltre l’offerta. Il falso ideologico dei lavoratori stranieri che coprono i vuoti lasciati dagli italiani vuole solo nascondere il problema dello sfruttamento dei lavoratori, assopendo le coscienze e cancellando i diritti di tutti.

Chi sostiene che l’immigrazione sia un “fenomeno”, dà un’immagine assolutamente falsata della questione. L’immigrazione non ha nulla di occasionale. Non è un esodo improvvisato di persone in fuga da qualcosa o qualcuno. Non nasce dall'oggi al domani. L’immigrazione è, piuttosto, la prima e più visibile conseguenza dell’attuale sistema del lavoro globalizzato: un sistema in cui le condotte umane vengono indirizzate esclusivamente attraverso le leve economiche della domanda e dell’offerta di lavoro. Il porre l’accento sull'emergenza, sugli sbarchi, sul tema “dell’invasione straniera” (così come sulle quote, sui permessi di soggiorno, sulla repressione), mette in ombra il nodo centrale attorno al quale tutto ruota: il mercato ha bisogno del lavoro immigrato, e ne ha bisogno proprio nella sua forma attuale. Come in passato si nascondeva l’origine del profitto - che traeva origine dal plusvalore generato degli operai - oggi si nasconde il plusvalore che generano i lavoratori immigrati.

L’Italia è un paese che, da molto tempo ormai, ha una crescita demografica negativa. Questo significa che, man a mano che la popolazione italiana ha iniziato a invecchiare, sono rimasti dei “posti vuoti” nella società. La dinamica è più facile da capire in un piccolo centro che non nelle grandi città: se in un paesino muore il macellaio o il farmacista, il giorno successivo la gente si preoccuperà di sapere chi venderà la carne o i medicinali, perché quel “posto” è rimasto vuoto. Nelle città l’unica cosa a cui possiamo guardare sono i dati generali relativi alla popolazione, che, stando alle statistiche, ogni anno diminuisce. Ma questo oltre a “lasciare vuoti dei posti” crea anche una contrazione del mercato. Man mano che la popolazione invecchia diminuisce il proprio valore d’uso, nel senso che non contribuisce più come una volta a far girare l’economia: gli anziani non comprano (o lo fanno di rado) case, auto, vestiti, elettrodomestici e tutto quello che la società dei consumi produce incessantemente. Magari incrementano le proprie richieste di servizi (donne delle pulizie, badanti, medici e infermieri), ma iniziano a porsi ai margini del mercato dei beni. Inoltre, le persone anziane non lavorano più, ma percepiscono una pensione, diventando quindi per la collettività una voce in passivo. Perciò, ricapitolando: la popolazione invecchia, la natalità è negativa, gli anziani diventano un costo che grava sulle spalle della popolazione economicamente attiva, che - soprattutto considerando il nostro alto tasso di disoccupazione - si assottiglia sempre di più. Quindi? Quindi arrivano gli immigrati.


martedì 1 aprile 2014

Mihai Muntean, noto cittadino rumeno parla sul Libro: L'immigrazione come processo in Italia di Edgar Galiano.

L’immigrazione come processo in Italia


Un libro pieno di racconti, ricco di testimonianze non che una accurata analisi del processo del immigrazione in Italia, scritto dal mio caro amico Edgar Galiano, ecuadoregno di nascita, immigrato in Italia da più di 25 anni.

Con un passato di studi in Lettere e Filosofia al Università di Quito, non che da militante agguerrito per i diritti civili, Edgar e uno de personaggi di spicco delle lotta per i diritti, di tutti i migranti.

Organizzatore e partecipe a tutte le grandi manifestazioni di piazza, dibattiti, convegni, tavoli da lavoro istituzionali, la sua tenacia, la sua retorica e padronanza delle problematiche del immigrazione hanno fatto di lui un leader indiscusso delle battaglie per i diritti civili dei cittadini del mondo immigrati in Italia, e la mia testimonianza e quella di uno degli tanti amici che hanno partecipato insieme a lui a tutto questo percorso di lotta.

Assieme ad altri amici immigrati, e anche membro fondatore del “Comitato immigrati in Italia”,un organizzazione multietnica, natta anni fa con lo scopo di dare forma e contenuto alle richieste ed esigenze degli immigrati, davanti alle autorità istituzionali.

In tutti questi anni, Edgar non ha mai mollato l’impegno presso al cuore, di difendere e rivendica dei diritti. Sarebbe stato un peccato, se la sua esperienza non fosse stata raccolta in maniera molto semplice di chi, tutto quello raccontato fa parte della sua vita, fatti ed eventi accaduti, e di cui lui e stato protagonista e partecipe.

Allo stesso tempo la sua cultura ed esperienza nel campo sociale, e politico, hanno fatto si che il libro prendesse anche una forma ed una stesura scientifica, di un autore con una grande capacità sintetica ed analitica, siche al mio avviso può essere proposto senza problemi come bibliografia di studio del fenomeno migratorio in Italia, per le materie attinenti alle scienze sociali e politiche.

Come ho già detto al inizio di questa mia presentazione, il libro e strutturato in sei capitoli, ognuno di essi con i sotto capitoli corrispettivi:

Cap. I - L’immigrazione come processo in Italia.
1.1- Il sistema Italiano d’immigrazione.
1.2-Le cause.
1.3-Le fasi

Cap. II - L’utilità economica degli immigrati.
2.1- Forza di lavoro delle persone straniere.
2.2-L’imprenditoria delle persone straniere.

Cap. III -Lo Stato e le forze politiche.
3.1 –Cornice legale.
3.2-Politica e la demagogia elettoralistica.
3.3-La nuova Politica

Cap. IV -I lavoratori immigrati ed il sindacalismo.
4.1-I diritti dei lavoratori.
4.2-Gli iscritti immigrati nel sindacalismo.

Cap. V -L’accoglienza ed integrazione.

5.1- L’ accoglienza.
5.2-L’Integrazione.

Cap. VI -I lavoratori immigrati “anche” pensano, parlano e lottano.

6.1-La soggettività degli immigrati e le loro rivendicazioni.

6.2- L’organizzazione e lotta civile.

Come si può immaginare dai titoli, il libro farà sicuramente discutere, per che i temi non sono trattati con guanti di velluto, ed io devo dire che ho ritrovato nelle sue pagine lo spirito di squadra e soprattutto le idee comuni che ci hanno tenuti insieme durante tutti questi anni, cioè la consapevolezza che le comunità dei migranti si devono auto organizzare se davvero vogliono avere mai un peso sociale e politico rilevante, nel perseguimento del integrazione e convivenza. E per tutto questo non ci e rimasto molto tempo, per che vengono forte avanti le nuove generazioni di cittadini italiani di nascita, ma non cittadini di diritto, una realtà con la quale la società italiana si confronterà e scontrerà duramente, tra non molto.

Per che vorrei vedere come faranno le istituzioni dello stato a spiegare ai giovani delle seconde generazioni degli immigrati, che loro, nonostante siano nati, cresciuti, ed educati in Italia, non sono pero cittadini italiani, e che i loro diritti sono limitati, rispetto ai loro connazionali!?

Un capitolo importante e dedicato al diritto di voto che non c’è, per i cittadini extracomunitari, i quali se lo sognano, nello stesso tempo in cui, chi c’è l’ha, non lo usa, come i neo comunitari della mia comunità, cioè i romeni!

In soma, non ve lo voglio raccontare tutto, per cui lascio a voi il piacere di leggerlo, discuterlo, lodarlo oppure criticarlo.

Concludo e chiudo, non prima di ricordare colei che si e presso l’impegno editoriale e di curatrice di questo libro, una giovane, bella e brava giornalista italiana figlia di una famiglia mista come tantissime famiglie oggi in Italia, Elisa Scourtaniotu.

Ringrazio anche agli amici, numerosi di varie etnie che hanno risposto al invito di partecipare alla presentazione del libro, ed alle belle e brave studentesse delle varie università di italia, anche esse figlie dei migranti, che si sono presso sul serio l’impegno di presentarci ognuna di loro, un capitolo del libro, facendosi con cura degli appunti elaborati, ed a tutti coloro che hanno presso la parola alla fine, chiudendo l’incontro con degli spunti di riflessione sul mondo degli immigrati in Italia.

Ancora una volta ringrazio al mio caro amico Edgar, per avermi fatto l’onore ed il piacere di invitarmi a presentare e moderare questo bel evento, in un giorno ricco di significati per i popoli; La vigilia della Pasqua!

Grazie di cuore, cari amici!